Le novità della riforma del Welfare del Lazio

Le novità della riforma del Welfare del Lazio

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LUG – La legge che riforma i servizi sociali del Lazio approvata dal Consiglio regionale il 16 luglio 2016, licenziata dalla commissione Politiche sociali e salute il 5 luglio, è articolata in dieci capi. Dopo aver indicato le finalità, l’oggetto e le definizioni, la normativa individua i soggetti verso i quali la Regione, in via prioritaria, attua le politiche sociali integrate. Fissate le tipologie di prestazioni essenziali, si introduce poi il concetto di gestione associata dei servizi sociali, si potenziano organismi e uffici dei distretti socio-assistenziali.

Strumento privilegiato della programmazione delle politiche sociali sul territorio del Lazio sarà il Piano sociale regionale. Nasce il Sistema informativo dei servizi sociali della Regione (Siss). Comuni associati e Asl saranno obbligati ad adottare una specifica convenzione per l’integrazione socio-sanitaria. Prevista una serie di strumenti per garantire la qualità degli interventi e dei servizi. È promossa non solo l’integrazione tra i servizi, tra i Comuni, ma pure quella tra gli interventi sociali e quelli sanitari a livello di programmazione, organizzazione, erogazione e finanziamento.
La finalità della riforma dei servizi sociali
L’obiettivo che la Regione Lazio persegue è garantire i diritti di cittadinanza sociale, promuovere la dignità della persona, sia come singola, sia inserita nella famiglia, nella comunità e nelle formazioni sociali in cui essa si realizza, promuovendone l’autonomia di vita e l’inclusione sociale.

I destinatari delle politiche sociali “integrate”
La proposta di legge, nel capo secondo, individua i soggetti verso i quali la Regione, in via prioritaria, attua le politiche sociali integrate: famiglia (compresi i nuclei monoparentali) e minori, persone con disabilità, disagio psichico, affetti da Alzheimer, anziani, immigrati e minoranze, persone vittime di violenza e donne incinte o madri in situazione di disagio sociale, persone sottoposte a provvedimenti penali, persone dimesse dagli ex ospedali psichiatrici giudiziari, persone senza dimora, persone con dipendenze, persone svantaggiate con necessità di alloggio o di inserimento lavorativo, tra cui i padri separati o divorziati. Sempre in tema di lavoro, il testo incentiva quello a distanza per agevolare l’armonizzazione dei tempi di vita e di lavoro con gli impegni di cura familiare.

Verso l’omogeneità dei servizi nei diversi territori del Lazio
Il testo, nel capo terzo, fissa anche le tipologie di prestazioni essenziali da assicurare in modo uniforme a livello di distretto socio-assistenziale, senza differenze tra comuni grandi e piccoli o tra diversi territori della Regione. Si tratta del recepimento di uno dei punti decisivi della legge 328/2000, ovvero i livelli essenziali di prestazione sociale, e l’inizio del superamento di una delle disfunzioni storiche del sistema di welfare regionale, ovvero una forte disomogeneità nell’erogazione dei servizi nei diversi territori della nostra regione. Introdotto, con emendamento approvato in aula, il riconoscimento e il supporto della figura del caregiver familiare, ossia la persona che volontariamente si prende cura di una persona non autosufficiente.

La gestione associata dei servizi sociali
Il capo quarto introduce il concetto di gestione associata dei servizi sociali, per migliorare la qualità degli interventi e della spesa. La nuova legge prevedrà la possibilità di mantenere a livello comunale soltanto quei servizi che hanno non rilevanza sanitaria e che comportano una modesta complessità gestionale. Tutti gli altri interventi dovranno essere gestiti invece a livello associato. La riforma ribalterà radicalmente anche i meccanismi finanziari della spesa sociale. Finora i comuni utilizzavano le risorse dei propri bilanci esclusivamente per i servizi da essi stessi singolarmente erogati ai loro cittadini, mentre i piani sociali di zona distrettuali venivano finanziati quasi interamente dalla Regione per fornire soltanto servizi integrativi all’offerta comunale. Con il trasferimento delle funzioni saranno potenziati i livelli organizzativi di cui al capo quinto, ovvero gli organismi e gli uffici dei distretti socio-assistenziali, attraverso il distacco del personale degli uffici dei singoli comuni dedicati ai servizi sociali.

Piano sociale regionale e sistema informativo dei servizi sociali
Il capo sesto disciplina il Piano sociale regionale, che sarà lo strumento privilegiato della programmazione delle politiche sociali sul territorio. Per la stesura del Piano è previsto esplicitamente il coinvolgimento degli organismi del Terzo settore, delle organizzazioni sindacali e delle Asl. La Regione avrà l’obbligo di verificare la coerenza dei piani sociali di zona con il Piano regionale e il loro stato di attuazione. Nasce poi il Sistema informativo dei servizi sociali della Regione (Siss) che organizza, anche in collaborazione con l’Osservatorio permanente sulle famiglie, i vari flussi informativi provenienti da tutti i soggetti coinvolti dalla nuova legge, con una impostazione di tipo “open data”.

Convenzioni tipo tra comuni associati e Asl
Comuni associati e Asl, come specificato dall’articolato del capo settimo della proposta di legge, saranno obbligati ad adottare una specifica convenzione per l’integrazione socio-sanitaria, secondo uno schema-tipo che sarà approvato dalla Giunta regionale. Il raggiungimento degli obiettivi di integrazione sarà un elemento fondamentale per la valutazione sia per i responsabili dei piani sociali di zona, sia per i direttori dei distretti sanitari. Inoltre la legge stabilisce il potenziamento della Conferenza locale per la sanità (che riunisce i sindaci dei comuni di ciascuna Asl), che verrà trasformata nella Conferenza locale sociale e sanitaria. E soprattutto viene normata con precisione la presa in carico integrata della persona attraverso i Punti unici di accesso alle prestazioni sociali, socio-sanitarie e sanitarie, e viene adottato il modello di integrazione basato sul budget di salute.

Osservatorio regionale, carta dei diritti e anagrafe dei servizi sociali
Al capo ottavo la legge prevede una serie di strumenti per garantire la qualità degli interventi e dei servizi: la nascita dell’Osservatorio regionale delle politiche sociali; l’adozione da parte dei comuni di una carta dei diritti di cittadinanza sociale; l’attuazione di processi di valutazione da parte dei cittadini e delle associazioni di tutela degli utenti; l’anagrafe elettronica dei servizi sociali. L’affidamento dei servizi dovrà avvenire sulla base della qualità oltre che del prezzo.

Integrazione tra interventi sociali e sanitari
“Integrazione” è una delle parole-chiave della proposta di legge in esame ed è espressamente disciplinata dagli articoli del capo nono. Non solo integrazione tra i servizi, tra i Comuni, ma tra gli interventi sociali e quelli sanitari a livello di programmazione, organizzazione, erogazione e finanziamento. È la fine di quello scollamento tra sistema sociale e sanitario che, a detta dei proponenti, tanto danno ha prodotto sia in termini di qualità degli interventi, sia in termini di speco di risorse.

Piani di zona distrettuali: finanziati dai comuni e integrati della Regione
I Comuni dovranno inoltre destinare la maggior parte delle loro risorse al finanziamento dei piani di zona distrettuali e la Regione interverrà con fondi integrativi per riequilibrare e garantire servizi uniformi su tutto il territorio. La nuova legge sarà finanziata, per l’anno in corso, attingendo ai capitoli di spesa già iscritti nelle disponibilità del 2016 dell’assessorato alle Politiche sociali, per circa 150 milioni di euro, di cui 80 derivanti da assegnazioni statali, 25 da risorse comunitarie.

Gli ultimi articoli, contenuti nel capo dieci, contengono le disposizioni finali, la clausola valutativa e l’abrogazione della precedente legge che regolamentava i servizi sociali regionali, la legge n. 38 del 1996.

17 luglio 2016
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Nudi Davanti al Pubblico – “Pazzianne Pazzianne”, Lo Spettacolo dei Pazienti del Centro di Salute Mentale

NUDI DAVANTI AL PUBBLICO – “PAZZIANNE PAZZIANNE”, LO SPETTACOLO DEI PAZIENTI DEL CENTRO DI SALUTE MENTALE DI CONTURSI TERME IN SCENA ALL’AUDITORIUM PALATUCCI DI CAMPAGNA

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«Vogliate perdonarci, non so come sia potuto succedere». Il direttore del circo ha guadagnato il centro del palco. È scuro in volto, adirato, lo sguardo perso in platea. Nemmeno l’accento francese riesce a celare il suo disagio. «Tornate domani», aggiunge, «proveremo a risolvere quest’inghippo».

Un inghippo, un inconveniente, un problema, anche abbastanza grosso. Qualcosa non ha girato nel verso giusto, qualcosa ha tradito giocolieri e attori proprio nel momento più delicato e importante, quello per cui ogni artista si prepara, lavora ed è poi pagato: il momento della performance. Le palline e gli anelli lanciati in aria non volteggiano a dovere, i piatti scivolano dalla punta dei bastoni e la voce di chi canta non imbocca l’ottava giusta. La sala prende a rumoreggiare, gli errori si ripetono, cresce l’imbarazzo, è un susseguirsi di stecche, un’inesorabile rassegna di fiaschi. Il disappunto è alle stelle, c’è chi ride, chi fischia, chi strepita e contesta. Qualcuno pretende a gran voce i soldi del biglietto. Come dargli torto? Lo spettacolo a cui stiamo assistendo è veramente penoso. E il fatto che sia gratuito è un dettaglio di poco conto che non sconfessa affatto la richiesta di un rimborso più che mai legittimo.

Tutto ha un costo, anche la porzione di tempo che ognuno di noi si è ritagliato per presenziare a questo scempio. A me, ad esempio, è servita mezzora buona d’auto per raggiungere l’Auditorium Palatucci di Campagna, dove si sta consumando il dramma – fin troppo reale e fin troppo poco teatrale – che ho appena descritto. E dire che era un appuntamento a cui tenevo tanto, avevo segnato da tempo la data sulla mia agenda e da tempo avevo riorganizzato i miei impegni per godermi questo spettacolo. Per nessuna ragione al mondo mi sarei perso il debutto teatrale dei miei amici del Centro di Salute Mentale di Contursi Terme. Mi lega a loro un affetto più che fraterno, abbiamo trascorso insieme giornate memorabili. E insieme a loro – e con Valentina Gaudiosi e Simone Valitutto – ho realizzato poco meno di un anno fa il videoclip di un indovinatissimo brano de Il Conte Biagio, intitolato – manco a farlo apposta – “La gente parla”, una lucida invettiva in cui il giovane cantautore maledice la spietata arte del pettegolezzo in cui noi tutti – nessuno escluso – eccelliamo.* A onor del vero, il grosso del lavoro all’epoca lo fecero i pazienti. Le idee, la trama, il soggetto e finanche le inquadrature delle riprese furono frutto del loro ingegno e della loro inesauribile creatività. A me, Valentina e Simone restava il compito di schiacciare il pulsante per avviare la registrazione durante le riprese e di mettere in fila i pezzetti di girato in fase di montaggio.

Insomma, dopo aver saggiato in prima persona le grandi capacità dei pazienti del Centro di Salute Mentale (tanto come creatori quanto come attori), beh, proprio non mi aspettavo di ritrovarmi spettatore di una loro simile debacle.

Cos’è che vi è successo, amici cari? Cos’è che vi ha bloccato, stasera? Quale morbo ha prosciugato la vena – pochi mesi fa così abbondante – della vostra genialità? Sono domande la cui carica retorica è facilmente disinnescabile. Io stesso, avendo seguito la rappresentazione fin dall’apertura del sipario, sono in grado di dar loro una risposta concreta. L’ho sentita anch’io – nella prima parte dello spettacolo, prima che iniziasse il circo – quella voce insistente. Veniva da fuori, è stata lei a toccarvi dentro, quell’impietoso appello dei falliti vi ha turbato, vi ha sottratto la tranquillità di cui necessita un artista che si appresta a esibirsi. A te, Alfonso, quella voce diceva che non ti sei laureato e che dunque non vali niente. A te, Maria, diceva che la tua è solo un’illusione, ché tanto un fidanzato non lo troverai mai. A te, Salvatore, diceva che la vita è una cosa seria cui non si addice quel sorriso che hai sempre stampato sulle labbra. Eco esteriore dei marosi che travolgono la coscienza, a ognuno di voi quella voce ha ricordato la genesi del vostro naufragio, ha raccontato l’origine della vostra disfatta, ha scavato in quel vuoto con cui ogni giorno ancora fate i conti. E così lo spettacolo – il vostro spettacolo – è andato a rotoli. Avete disatteso le aspettative. Non siete stati all’altezza del ruolo che vi hanno assegnato, tanto meno del pubblico che è corso a vedervi. Avete violato la regola fondamentale del gioco del teatro, regola secondo cui chi calca le assi di un palco deve necessariamente mostrarsi e dimostrarsi forte, fermo, sicuro, sereno, abile, capace, preparato, efficiente, idoneo, adatto. La stessa identica regola che disciplina e coordina – prima ancora del teatro – anche il gioco della vita, del nostro vivere insieme, delle nostre interazioni sociali.

 

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Cos’altro facciamo, noi tutti, ogni sacrosanto giorno, se non salire sul palcoscenico della società? Cos’altro è la nostra vita se non l’interpretazione di un copione già scritto e di un ruolo sociale già stabilito? Cos’altro siamo se non attori che mettono in scena la rappresentazione sociale della propria vita?

A questo pensavo l’altra sera, mentre assistevo, rapito, a “Pazzianne pazzianne”, lo spettacolo realizzato dai pazienti del Centro di Salute Mentale di Contursi Terme, con la regia di Marta Clemente e Antonio Caponigro, i costumi di Maria Marino e Cosimina Moscato, le musiche suonate da Maddalena Pierro, Tonino Caputo e Raffaele Monaco e la partecipazione del clown Rosario Cuzzocrea, in arte Cico.

Pensavo al sociologo canadese Erving Goffman e alla sua metafora drammaturgica secondo cui la nostra quotidianità non è altro che una performance teatrale, una messinscena collettiva nella quale ognuno interpreta una parte – la propria parte – a seconda del canovaccio culturale, a seconda della specifica situazione comunicativa, a seconda del particolare contesto sociale in cui avviene la nostra interazione con l’altro. Siamo attori, insomma, costantemente alla ricerca della strategia drammaturgicapiù adatta a conferire coerenza e importanza al nostro ruolo, costantemente tesi al controllo delle nostre espressioni e dei nostri gesti, attenti a evitare ogni possibile comportamento che possa far nascere nel pubblico dubbi sul nostro conto e screditare, pertanto, il personaggio che stiamo interpretando.

Siamo attori, dunque, e in quanto tali dobbiamo dar prova della nostra forza, della nostra fermezza, della nostra abilità, socialmente obbligati a padroneggiare la nostra condotta emozionale per dimostrare di essere tutto ciò che deve necessariamente mostrare di essere un attore quando si presenta in teatro, sul palco, di fronte al pubblico. Niente debolezze, niente incertezze, niente atti e portamenti fuori luogo: è su questo che si basa il patto sociale non scritto delle nostre interazioni. Ed è proprio qui – nel coraggioso rovesciamento di questo universale postulato sociale – che ho trovato l’infinita, commovente bellezza dello spettacolo cui ho avuto la fortuna di assistere.

Gli attori hanno spezzato il canovaccio prefissato, i pazienti hanno infranto il comandamento mondano della presentabilità sociale. Si sono mostrati deboli, incerti, insicuri, turbati. Alla facciata hanno preferito l’essenza, al ruolo hanno sostituito la coscienza, al personaggio hanno anteposto la persona. Dando voce alla loro inidoneità, hanno finalmente raccontato la nostra congenita inabilità. Portando in scena i loro smarrimenti, hanno espresso i nostri scompigli, i nostri disordini, il rimescolarsi confuso e irrequieto del nostro spirito. Rappresentandosi per quel che naturalmente sono, hanno rappresentato la nostra vera natura. Siamo fragili, scostanti, arsi vivi dai dubbi, mangiati dall’angoscia, soggiogati dagli affanni, pieni di vuoti incolmabili, lacerati dalle frustrazioni, sballottati dall’altalena di piacere e dolore, devastati dalle rinunce, asfissiati dalle repressioni, psicologicamente demoliti dal martellante susseguirsi di voci interiori. Sacrifichiamo anima e corpo sull’altare delle tante aspettative nostre e delle troppe attese altrui. Barattiamo la nostra autenticità per la crosta posticcia e insulsa di recite contraffatte e di maniera. E – quel che è peggio –, pur covando in cuor nostro la consapevolezza di uno scambio frustrante e svantaggioso, seguitiamo a svendere pezzi del nostro spirito per un pugno di consensi sociali, per una manciata di approvazioni formali, per un minuto o due di applausi d’occasione. Cosa resta di noi se, raggirando la nostra natura imperfetta, continuiamo a sbarrare ogni via d’accesso alla felicità col macigno dell’onnivora esigenza della performance perfetta? Cosa c’è di veramente nostro in questo spersonalizzato e spento mercimonio di battute a tempo e gesti cronometrati? Quanto ancora riusciremo a sopravvivere a questo efferato taylorismo dell’anima prima di consegnarci, una volta esaurite le nostre forze, alla follia?

Pazzianne pazzianne” è il racconto, vissuto e vivente, di chi non ce l’ha fatta, di chi ha ceduto, di chi ha perso il ritmo ed è inciampato. “Pazzianne pazzianne” è la messinscena personale di chi si è ritrovato tagliato fuori dallo scenaggiato sociale. “Pazzianne pazzianne” è il nostro racconto, la nostra storia, la storia della nostra vita. O, almeno, è una storia da cui noi tutti avremmo tanto da imparare. Al diavolo i malintesi: intendevo noi tutti esseri umani, ovviamente. Non alludevo a nessun tipo di “noi” come epicentro dinormalità, sanità e salvezza da contrapporre al turbine mentale che rovescia “loro”, vale a dire i malati, gli spostati, i pazzi. Non esiste alcun confine di questo genere, le uniche linee di demarcazione sono quelle tracciate dalla maniacale ossessione dicotomica del potere. Per di più, se proprio volessimo ragionare in termini di contrapposizioni binarie, allora alla supposta normalità e all’ipotetica sanità mentale che sostanzierebbe il “noi” dovremmo contrapporre non tanto l’anormalità e la follia, quanto lostoicismo e la temerarietà di chi, dopo aver toccato il fondo, sta provando a risalire, raccattando e riattaccando – uno per uno – i pezzi del proprio io in frantumi.

È così che vanno le cose sul palco, lo spettacolo va avanti anche dopo il fallimento del circo. Anzi, è lì che comincia la vera storia. Non sarà certo un licenziamento a fermare gli eroi che si alternano in scena, le sventure che i pazienti hanno vissuto nella realtà hanno trasmesso agli attori il segreto della forza d’animo, nessuna occasione persa potrà mai arrestare la danza delle possibilità nuove e altre che anima l’esistenza.

Certo, bisogna fare i conti con le lacrime che ora sgorgano copiose sul volto degli attori, c’è l’angosciante sapore della solitudine, c’è da digerire la velenosa coda emotiva del fallimento. Ma, di lì a poco, ecco la sorpresa di scoprirsi piacevolmente nudi e finalmente autentici, ecco il coraggio di presentarsi così, liberi dalla prigionia di ogni maschera sociale, davanti al pubblico, dinanzi al proprio prossimo. E quando anche l’ultimo dei pazienti ha abbandonato il proprio travestimento e ha mostrato i lineamenti del proprio intimo essere, prorompe automaticamente sulla scena la magia della semplicità: gli attori si riscoprono artisti della sopravvivenza, acrobati dell’esistente, giocolieri impeccabili e fenomenali con ciò che hanno a disposizione, fosse anche una busta di plastica vuota o una scatola sformata di cartone. Nessuno più ride di loro, nessuno strepita, nessuno protesta. La bilancia del consenso – quello vero – pende adesso a loro favore. Sanno bene, gli attori, che ciò che li ha finora condannati era soltanto il riflesso distorto di un effimero gioco di specchi. Hanno capito, i pazienti, che ciò che può salvarli è il riconoscersi, con i propri limiti, nei limiti dell’altro, per procedere insieme, mano nella mano, nello spinoso cammino della vita.

 

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Ho dedicato anni allo studio di Antonin Artaud e alla sua idea di un teatro crudele, un teatro scevro da ogni fine estetico e comunicativo, un’arte totale in cui ogni elemento è un atto magico che trapassa il sentire dello spettatore fino a sconvolgere – come un medicamento, un farmaco della psiche – la sua coscienza. Per Artaud, che ha trascorso buona parte della sua vita segregato in manicomio e che per la sua presunta follia ha subito – a mo’ di cura – più di cinquanta elettroshock, il teatro non ha mai avuto niente da spartire con la farsesca rappresentazione di una storia. L’unico possibile fine del teatro era l’espressione della più cruda e viscerale verità, quella che abita le profondità più recondite e nascoste del nostro corpo. All’attore Artaud assegnava il compito non di interpretare un personaggio ma di riattualizzare, attraverso il corpo, le forze primordiali e violente che alimentano la nostra vita e che, una volta espresse, avrebbero potuto restituire al teatro la sua originale funzione terapeutica.

Ho cercato a lungo, tra innovatori e progetti sperimentali, qualcosa che si avvicinasse all’idea di Artaud. Una ricerca resa vana dallo scarto che puntualmente ho avvertito tra l’attore che stava andando in scena e l’uomo che avrebbe immancabilmente preso il suo posto non appena si sarebbe concluso lo spettacolo.

Ho ritrovato il teatro – quello vero, crudele, il teatro di Artaud – l’altra sera, dove meno me l’aspettavo e quando meno credevo possibile, essendomi ormai arreso da qualche tempo all’impossibilità di vedere trasformate in realtà le idee del “folle” pensatore e attore francese. Ho ritrovato la crudeltà del teatro sognato da Artaud assistendo a uno spettacolo in cui – per la prima volta – uomo e attore coincidevano chirurgicamente, l’uno perfettamente sovrapposto all’altro, l’uno fuso e vivo per forza di cose nell’altro.

«I pazienti volevano parlare di sé, di ciò che vivono interiormente, delle proprie angosce», mi ha raccontato dopo lo spettacolo la dottoressa Antonella Albero, illuminatissima direttrice dell’Unità Operativa di Salute Mentale 64 A di Contursi Terme.  «Che dovevamo farne di queste ombre che li tormentano? Abbiamo pensato che riconoscerle ed esprimerle era per loro un’ottima occasione per farsele amiche. Così i pazienti hanno deciso di portare in scena ciò che pensano veramente, ciò che vivono e sentono ogni giorno. Non so dirti quanto c’era di vero e quanto di recitato. So che questo spettacolo è il racconto della psichiatria dal punto di vista di un paziente. Un racconto a cui noi operatori non ci opponiamo. A noi spetta il compito di costruire legami, non di applicare lacci e legacci che imprigionano.»

*Ecco il link al videoclip del brano “La gente parla” de Il Conte Biagio realizzato insieme ai pazienti del Centro di Salute Mentale  di Contursi Terme: https://www.youtube.com/watch?v=K-DQoptr3Ak

– See more at: http://www.occhiodisalerno.it/notizie-dal-territorio/nudi-davanti-al-pubblico-pazzianne-pazzianne-lo-spettacolo-dei-pazienti-del-centro-di-salute-mentale-di-contursi-terme-in-scena-allauditorium-palatucci-di-campagna/#sthash.rXfFg7qz.dpuf

 

 

Psichiatria Democratica: lettera a Virginia Raggi

1Psichiatria Democratica: lettera a Virginia Raggi

Caro Sindaco Raggi, Psichiatria Democratica le augura il meglio per l’incarico che ha conquistato nelle recenti elezioni. Siamo contenti di apprendere che la sua scelta simbolica sia stata quella di collocare il suo gruppo politico negli scranni a sinistra del Consiglio Comunale.

 

La nostra non è un’organizzazione partitica e la politica ci ha sempre interessati in quanto strumento per la realizzazione di quel vasto processo di conquista e riconquista dei diritti per quei cittadini che li hanno visti intaccati a causa della loro sofferenza, e questa è per noi una posizione di sinistra.

L’esclusione sociale non coinvolge solo gli utenti della Salute Mentale, l’assenza della piena cittadinanza neppure ma l’origine del nostro impegno nasce da quella straordinaria esperienza italiana di chiusura dei manicomi che ha avuto in Franco Basaglia il suo più importante e noto propugnatore.

Non sappiamo quanto Lei abbia avuto modo di venire a conoscenza delle vicende della Salute Mentale nel corso della sua storia professionale e nella lunga campagna elettorale che ha appena concluso. La realtà romana, anche in questo purtroppo, non è brillante.

In un breve elenco citeremo:

Le incertezze che riguardano il ruolo della riabilitazione psichiatrica, ovvero di tutte quelle pratiche emancipatorie e di inclusione attraverso il ripristino di relazioni umane e sociali vitali. In questa attività un ruolo importante è stato rivestito dall’attività dei Centri Diurni dei Dipartimenti di Salute Mentale e delle Cooperative Sociali virtuose che da decenni sono impegnate sul fronte dell’impresa sociale e della psichiatria di comunità.

Come forse saprà, il Comune di Roma è stato un motore importante per questi processi assumendo su di sé anche l’onere economico e assistenziale di queste attività.

Non pensiamo che questa soluzione sia l’unica possibile ma auspichiamo un confronto sano e aperto tra chi ha il compito della cura, la parte sanitaria del problema, e chi deve contribuire a garantire a tutti i cittadini, a prescindere dal loro stato di salute, gli stessi diritti costituzionali.

Attraverso il suo Dipartimento dedicato a Politiche Sociali e sussidiarietà, il Comune di Roma provvede a fornire o pagare i luoghi della riabilitazione e a finanziarne gli attori non sanitari. Le rovinose vicende di Mafia Capitale stanno trascinando con sé pratiche buone e altre desuete, e, attraverso la burocratizzazione, si rischia di buttare via bambino e acqua sporca. E’ anche quanto avviene con le Cooperative Sociali assimilate nel sospetto a quelle che hanno consumato risorse pubbliche con la complicità della cattiva politica. O con i Parchi Verde Qualità dove alcune attività riabilitative hanno luogo e dove tutto è fermo essendo anch’essi accomunati senza fare alcuna differenza tra concessionari buoni e truffaldini a color che della cosa pubblica hanno fatto man bassa.

In quanto ai diritti, non sappiamo quanto Lei sia al corrente che la gestione dell’urgenza psichiatrica nella Città di Roma è disastrosamente fallimentare. Nessun Sindaco, massima autorità sanitaria locale, è stato in grado sin qui, di disporre un’organizzazione in grado di tutelare le persone sottoposte a Trattamento Sanitario Obbligatorio: la privazione, seppur temporanea, della libertà per quei cittadini in crisi, vede nella Polizia Municipale che La rappresenta un baluardo di garanzia e di tutela per chi sta male, così come prescrive la legge, e per coloro che potrebbero patire conseguenze da quella sofferenza.

Purtroppo la città di Roma, capitale d’Italia, mette a disposizione di questa delicata attività una sola pattuglia di Vigili creando i presupposti per esiti pericolosi e rischiosi, come drammaticamente emerso anche in altre città. Ebbene, anche in questo ambito sarà indispensabile rivedere questa clamorosa mancanza.

Non ultimo per importanza è il tema dell’accorpamento delle ASL cittadine che, ubbidendo a una tendenza nazionale e a un’idea di razionalizzazione e risparmio i cui fondamenti non sono neppure troppo affidabili, rischia di far perdere senso a quel legame con il territorio che tuttora costituisce il meglio della Psichiatria italiana. Politiche locali disperse in territori vasti e popolosi, urbani e suburbani, possono essere destinate alla scomparsa riproponendo la centralità degli Ospedali che, non solo in ambito di Salute Mentale, non è la soluzione più avanzata né quella più economica.

Ci sono altri temi caldi che riguardano la Salute Mentale, l’esclusione e le politiche per il territorio, le Consulte locali e cittadine, il radicamento comunitario nei quartieri sempre più abbandonati a partire dalle periferie: su questi Psichiatria Democratica si è sempre schierata e battuta e ci auguriamo di poterci confrontare con Lei e la sua nuova amministrazione per poterli esporre di persona quanto prima insieme ad alcune modeste ma chiare proposte.

Psichiatria Democratica

4 luglio 2016

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Roma, 01/07/2016

 

La S.V. è cordialmente invitata all’evento Aperitivo a Castel di Guido, Un nuovo giardino per la Comunità, che si terrà Sabato 9 luglio 2016 dalle ore 18 alle ore 20, presso la Struttura Residenziale Terapeutico Riabilitativa del Dipartimento di Salute Mentale della ASL Roma 1, Via Gaetano Sodini 24, Castel di Guido, Roma.

 

L’evento rappresenta l’occasione per presentare il progetto di ristrutturazione del giardino della Comunità Terapeutica proposto dall’Associazione di Volontariato A.G.A.V.E. Onlus.

Attraverso una passeggiata nel giardino sarà possibile visionare le tavole del progetto che delineano le trasformazioni delle diverse aree verdi e della struttura generale degli spazi esterni, affinché gli ospiti della comunità possano goderne appieno e migliorare la loro qualità di vita nella residenza.

L’impostazione generale del progetto è volta all’apertura della comunità al territorio, alla sua integrazione, riducendo le barriere di separazione tra ospiti e cittadinanza e favorendo lo svolgimento di attività all’aria aperta che coinvolgano gli uni e gli altri nel gioco, nel rispetto dell’ambiente, nel tempo libero.

 

La Comunità di Via Sodini 24 è raggiungibile in auto percorrendo la SS1 Aurelia, prendendo l’uscita Castel di Guido del km 15, proseguendo per 5 km dallo svincolo e poi a sinistra, oppure prendendo l’uscita Castel di Guido del km 20, proseguendo per 700 m dallo svincolo e poi a destra.

Contatti per informazioni: 366 4439494, segreteria@associazioneagave.eu

 
Il Presidente di A.G.A.V.E. Onlus

Enrico Ferraro

Cordiali saluti.

 

Il Presidente di A.G.A.V.E. Onlus

Enrico Ferraro

 

 

 

 

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Seminario Salute Mentale nel Lazio – 5 luglio

Carissimi,

 

il dott. Marco Sparvoli ci invita a questo incontro di martedì 5  luglio, vedi locandina, e conta sulla nostra partecipazione.

Un caro abbraccio

 

Agnese Faccin

 

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