Alberto Paolini racconta la sua storia, da quando, orfano, fa l’esperienza del collegio fino alla sua attuale residenza in casa famiglia, passando per quarantadue anni di manicomio. La descrizione della sua vita, dall’applicazione dell’elettroshock ai laboratori di scrittura al Santa Maria della Pietà di Roma, è in parte orale, rilasciata come testimonianza, e in gran parte scritta. Il suo rapporto con la scrittura, infatti, è di lunga data. Inizia a scrivere sui foglietti che recupera in manicomio, con grafia minuta, per poter risparmiare spazio e carta, e poter conservare le sue scritture in tasca. Infatti, alla persona ricoverata, dice, non è consentito tenere nulla, se non le cose che possono stare nelle tasche della giacca, dei calzoni. Dei pochi frammenti rimasti si propongono qui, nella seconda parte, diverse poesie e alcuni racconti brevi, corredati dalle immagini dei diversi tipi di scrittura propri dell’autore.
“Il mio primo giorno di manicomio è, in realtà, limitato al solo pomeriggio. Era l’anno 1948 e io mi trovavo ricoverato nella Clinica Neuropsichiatrica dell’Università di Roma da ormai cinque mesi che avevo passato in osservazione. Ero al reparto infantile, perché così era stato deciso nonostante, al momento del mio ingresso nella clinica, fossi già sul punto di compiere i 15 anni, mentre il limite per essere ammessi al reparto infantile fosse stabilito a 14 anni.”
“Dal Padiglione 22 uno usciva di nascosto, prima che tornasse la suora andava all’albero di fichi e li raccoglieva. L’albero era vicino al Padiglione 20 e s’andava lì presto perché se ti scoprivano quelli del 20! Costruivamo un arnese per staccarli dall’albero fatto con una canna di bambù alla cui sommità avevamo legato una bottiglia tagliata a metà, la puntavamo in alto verso il ramo con i fichi, spingevamo, il fico si staccava e cadeva all’interno della bottiglia. I fichi li mangiavamo poi al Padiglione 16”.
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