Da autismo a depressione, mali della psiche hanno basi comuni nel Dna

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“Guasti” genetici comuni si celano dietro le principali malattie psichiatriche, come autismo, iperattività e deficit d’attenzione (ADHD), disturbo bipolare, depressione e schizofrenia. Una vasta analisi sul Dna di pazienti e soggetti sani ha infatti svelato un substrato genetico comune per queste malattie che nella pratica clinica appaiono spesso distanti tra loro. E’ il risultato di un maxi-studio pubblicato sulla rivista The Lancet, una ricerca senza precedenti condotta dai membri del Consorzio di Psichiatria Genomica (Psychiatric Genomics Consortium – PGC) in cui sono stati scansionati i genomi di ben 33.332 pazienti e 27.888 soggetti sani di controllo, tutti di origine europea. “Si tratta di uno studio importante – spiega Alessandro Serretti, docente di psichiatria all’Università di Bologna – per l’enorme campione di soggetti che ha esaminato e perché rinforza l’evidenza che ci sono fattori genetici comuni a tutte queste malattie. E’ la prima volta che si arriva a una dimostrazione così forte di ciò, ed è un passo verso la possibilità di predire a livello individuale il rischio di ammalarsi di una malattia psichiatrica”.

Classificazione delle malattie non più basata sulla descrizione dei sintomi ma sulle cause scatenanti – “Questa analisi fornisce la prima prova sull’intero genoma che gli stessi fattori di rischio genetico sono in comune tra malattie psichiatriche sia ad esordio in età pediatrica sia in età adulta, malattie che attualmente nella pratica clinica sono trattate come distinte categorie di disturbi”, spiega Jordan Smoller del Massachusetts General Hospital di Boston. “Le nostre scoperte sono rilevanti – rileva – nell’ottica di andare verso una classificazione delle malattie non più basata sulla descrizione dei sintomi ma sulle cause scatenanti”. Gli esperti hanno fatto una ricerca a tutto campo confrontando l’intero genoma di soggetti sani con uno dei cinque disturbi psichiatrici più comuni e visto che in tutti i pazienti ricorrevano mutazioni comuni a carico di regioni genomiche sui cromosomi tre e dieci ed a carico di 2 geni per particolari proteine.

La genetica aiuterà a prevenire queste patologie – La genetica dunque – che nelle malattie psichiatriche “pesa” per un minimo del 30-40% (nella depressione) fino a un massimo del 70-80% (nella sindrome bipolare) – potrebbe contribuire a predire e prevenire queste patologie e portare all’identificazione di nuovi bersagli molecolari per lo sviluppo di una nuova categoria di farmaci psicotropi. Per ora i geni noti ‘coinvolti’ nell’insorgenza di disturbi psichiatrici sono pochi, concludono i ricercatori, ma in futuro scoprendone di nuovi “si potrebbe raggiungere l’obiettivo di arrivare a fare una previsione su base individuale del rischio di malattia psichiatrica”.

28 febbraio 2013

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“InSideOut”: trent’anni di psichiatria in Italia in un’installazione interattiva

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“InSideOut”: trent’anni di psichiatria in Italia in un’installazione interattiva

La mostra verrà inaugurata oggi a Roma. La storia raccontata, attraverso immagini e ricordi, in un percorso multimediale, è quella di Paolo, disabile mentale, scritta dal fratello Carlo Gnetti nel libro “Il bambino con le braccia larghe”

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ROMA – Immagini, disegni e scritti, insieme a racconti e ricordi in un percorso multimediale e interattivo per raccontare trent’anni di psichiatria in Italia vissuti in prima persona da un disabile. Una storia raccolta dal Museo Laboratorio della Mente di Roma e Aye Aye Installazioni Interattive nell’istallazione “InSideOut. Il bambino con le braccia larghe” che verrà presentata oggi alle ore 17 presso la Sala della Pace di Palazzo Valentini, sede della Provincia di Roma e aperta al pubblico fino al 22 febbraio. Si tratta, assicurano gli organizzatori, di “una delle prime installazioni ad affrontare un tema delicato come il disagio mentale in forma multimediale e interattiva, lasciando al pubblico la possibilità di interagire direttamente”.

La storia raccontata è quella di Paolo, narrata dal fratello Carlo Gnetti nel libro “Il bambino con le braccia larghe” edito da Ediesse nel 2010. Un percorso che racconta le memorie del manicomio fino alle pratiche terapeutico-riabilitative della psichiatria sociale italiana, passando attraverso la chiusura degli ospedali psichiatrici e il funzionamento dei servizi di salute mentale.

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“La storia da cui noi prendiamo spunto è quella di un paziente che ha attraversato tutta la linea evolutiva del percorso della psichiatria italiana pre-legge 180 e post – spiega Pompeo Martelli, il direttore del Museo della Mente –. Una storia che racconta lo smantellamento dei manicomi e le sorti di molti altri pazienti che uscendo sono entrati nel circuito dell’assistenza permanente per le persone con gravi disturbi mentali”.

La mostra interattiva, spiegano gli organizzatori, permetterà ai visitatori di “entrare” nella storia di Paolo grazie alle testimonianze raccolte, ai suoi scritti e disegni attraverso monitor interattivi. “C’è una vera e propria ricostruzione di una stanza – aggiunge Martelli -. Una stanza dove non si entra, ma ci si muove intorno alle pareti fino ad una finestra dove il visitatore può infilare la testa in una stanza in miniatura che riproduce il luogo dove Paolo è stato ricoverato negli anni”. L’installazione, aggiungono gli organizzatori, “dà forma a un ribaltamento dal dentro a fuori, da osservatori a osservati, rendendo tangibile e visibile il passaggio da una dimensione corale a una dimensione intima e personale. Lo spazio scenico è racchiuso in una stanza che catapulta il visitatore in una dimensione spaziale dove dentro e fuori si alternano su due diversi piani di immagini e di suoni”.

Per Martelli, l’installazione è un’occasione preziosa per conoscere meglio il mondo del disagio mentale. “Nel campo della salute mentale è fondamentale acquisire più conoscenze – ha aggiunto -. Siamo dell’idea che la salute mentale non può essere delegata solo ad una relazione terapeutica. La salute mentale attiene alla comunità e si può svolgere solo all’interno di una sana comunità dove ognuno di noi è un pezzo del corpo curante del disturbo mentale. Dovrebbe essere anche un dovere civico da parte di tutti i cittadini quello di addentrarsi nel campo della salute mentale. Venire a vedere l’istallazione potrebbe rispondere a questo dovere”. Oltre alle caratteristiche di interattività della mostra, degne di nota anche le modalità organizzative. “La nostra è una operazione nata dal basso – spiega Martelli -. Abbiamo messo in piedi un budget dal basso, anche col sostegno della Provincia di Roma, Cariparma, Cgil-Spi e Centro Studi e Ricerche S. Maria della Pietà Associazione Onlus che ci hanno permesso di realizzare questo progetto. Un progetto che riteniamo suggestivo e utile per combattere lo stigma e restituire ai cittadini quella capacità di riflessione sui temi della salute mentale, oggi più che mai è necessario”. La mostra, dopo il 22 febbraio non chiude i battenti perché itinerante e dopo Roma verrà ospitata in altre località in tutta Italia.

© Copyright Redattore Sociale

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DSM-V: arriva la nuova edizione della ‘Bibbia della psichiatria’

da Le Scienze

 

DSM-V: arriva la nuova edizione della ‘Bibbia della psichiatria’

 

 

Nel maggio di quest’anno, dopo undici anni di lavoro, vedrà la luce l’ultima revisione del più diffuso manuale di riferimento degli psichiatri di tutto il mondo. Anticipiamo i principali cambiamenti rispetto all’edizione precedente, alcuni dei quali sono ancora oggetto di aspre discussioni di Ferris Jabr

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Per più di undici anni, l’American Psychiatric Association (APA) ha lavorato per rivedere l’ultima versione del suo best-seller: il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM). Anche se il DSM è spesso chiamato la “Bibbia della psichiatria”, non tutti i medici lo vedono come un testo sacro: molti lo considerano piuttosto un utile complemento alle proprie competenze. Tuttavia, negli Stati Uniti le compagnie di assicurazione chiedono spesso una diagnosi secondo i criteri del DSM prima di contribuire ai costi delle terapie, e i ricercatori trovano più facilmente finanziamenti se stanno studiando una malattia formalmente riconosciuta dal manuale. Lo scorso dicembre l’APA ha annunciato di aver completato il lungo processo di revisione; la pubblicazione della nuova edizione, il DSM-V, è quindi prevista per il maggio 2013, dopo un ultimo passaggio di editing (presumibilmente minore) e la correzione delle bozze. Ecco le decisioni finali dell’APA su alcuni dei nuovi disturbi più controversi e i cambiamenti più dibattuti relativi a quelli già classificati, con alcune sorprese.

L’accumulo è ora ufficialmente una malattia
Si tratta della compulsione ad accumulare eccessivamente oggetti(hoarding) che la maggior parte delle persone butta o regala, come vestiti mai indossati, vecchi giornali e giocattoli rotti. Alcuni degli accumulatori raccolgono ossessivamente animali oppure categorie particolari di oggetti, per esempio tessuti. Molti li conservano in casa, altri in auto o in ufficio. Anche se le cose si accatastano una sull’altra, divorando lo spazio e lasciando solo stretti passaggi, gli accaparratori rifiutano di sbarazzarsi di alcunché. In alcuni casi,  non pensano che disordine e caos siano un problema. Nelle edizioni passate, il DSM considerava l’accumulo un sintomo del disturbo ossessivo-compulsivo (OCD). Ora, in seguito a una serie di ricerche ben confermate, il DSM-V lo classifica come un disturbo a sé stante.

© Sandy Huffaker/CorbisGli studi pubblicati negli ultimi dieci anni hanno sottolineato che molti accumulatori non manifestano altri sintomi del disturbo ossessivo compulsivo e che nella popolazione generale l’accumulo potrebbe essere più comune dell’OCD. Altre indagini hanno suggerito che, sebbene OCD e accumulo patologico possano coesistere, sono geneticamente e neurologicamente distinti. Fra i genitori e i fratelli di accaparratori, per esempio, vi sono tassi di accumulo patologico più elevati che nei parenti di primo grado di persone con disturbo ossessivo compulsivo; inoltre l’accumulo sembra essere ereditato come carattere recessivo, mentre il controllo compulsivo e la sistematicità che caratterizzano l’OCD sono dominanti. Infine, anche se alcuni antidepressivi, come gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), e la terapia cognitivo-comportamentale spesso aiutano chi soffre di OCD, hanno molto meno successo nel cambiare i comportamenti di accumulo.

Anche gli studi di neuroimaging suffragano la nuova diagnosi. Hanno rivelato che quando gli accumulatori prendono decisioni su cosa tenere e cosa buttare, la loro attività cerebrale è nettamente diversa da quella delle persone con OCD e delle persone senza disturbi mentali. Hanno bisogno di molto più tempo per fare una scelta e mostrano una maggiore attività nella corteccia cingolata anteriore, un’area cerebrale che ha un ruolo importante nel processo decisionale, e nell’insula, che aiuta a interpretare le nostre emozioni e le nostre risposte fisiologiche. Gli accumulatori patologici, a quanto pare, sviluppano un forte attaccamento emotivo verso oggetti che la maggior parte delle persone non esita a buttare.

La ridefinizione di dipendenza e l’introduzione dei disturbi d’azzardo
Il DSM ha evitato a lungo  la parola addiction, parlando piuttosto di sostanze d’abuso e di dependence. Secondo la quarta edizione del manuale, l’abuso di sostanze si riferisce a un consumo di droga ripetuto che crea problemi sul lavoro, a scuola e nella vita sociale. Per contro, la definizione del DSM-IV di dipendenza (dependance) da sostanze corrisponde a ciò che molti intendono per “tossicodipendenza”: una quantità eccessiva di tempo trascorso per entrare in possesso della sostanza, una maggiore tolleranza a essa, danni fisici o psicologici dovuti al suo consumo, tentativi falliti di interromperne l’assunzione e sintomi di astinenza.

4© igors Sinitsyn / Demotix/Demotix/CorbisCharles O’Brien, della University of Pennsylvania e Nora Volkow, direttore del National Institute on Drug Abuse (NIDA), hanno scrittoche la commissione dell’APA responsabile della revisione del DSM-III del 1980 scelsero il terminedependence al posto di addiction per un solo voto. Da allora diversi psichiatri hanno sostenuto che il DSM fonde i due concetti. In generale, i medici (tra cui la Società americana di medicina delle dipendenze) definiscono la dipendenza non come dipendenza chimica, ma come costante ricerca e uso di una sostanza nonostante tutte le sue ovvie ripercussioni. Le persone che assumono antidepressivi, analgesici o ipertensivi, per esempio, dipendono da quei farmaci per vivere normalmente, ma non sono “dipendenti” (addicted). Come risultato della fusione operata nel DSM, scrivono O’Brien e Volkow, “i medici che osservano segni di tolleranza e sintomi di astinenza suppongono che ciò significhi dipendenza (addiction), e i pazienti che necessitano di ulteriori analgesici vengono lasciati soffrire. Ugualmente, pazienti che avrebbero bisogno di analgesici oppiacei possono rinunciare a un trattamento adeguato per paura della dipendenza, che equiparano alla tossicodipendenza.

Ora, l’APA ha fatto un passo per rimediare a ciò che molti considerano una scelta sbagliata. Il DSM-V elimina la confusione fra i due termini: tutte le dipendenze e i relativi problemi rientrano nella categoria “disturbi da uso di sostanze”, in un capitolo intitolato “Disturbi da dipendenza e correlati all’uso di sostanze”. Il DSM-V rafforza inoltre i criteri per la diagnosi di questi disturbi, graduandoli in lievi, moderati o gravi. Mentre nel DSM-IV per una una diagnosi di abuso di sostanze era richiesto un solo sintomo, nella nuova edizione un disturbo da uso di sostanze lieve richiede almeno due sintomi.

 

5© Franck Guiziou/Hemis/Corbis

 

Originariamente, l’APA aveva  proposto di inserire un nuovo capitolo intitolato “Dipendenze comportamentali”, ma il capitolo non sarà presente nella nuova edizione. Per la prima volta, tuttavia, il nuovo manuale includerà, insieme ai disturbi da uso di sostanze, anche il disturbo da gioco d’azzardo. Nelle precedenti edizioni del DSM “gioco d’azzardo patologico” era classificato come un disturbo del controllo degli impulsi .

Che si possa essere dipendenti da un comportamento come il gioco d’azzardo allo stesso modo in cui si può essere dipendenti da una sostanza rimane però una questione molto controversa. L’APA ha basato la sua decisione, almeno in parte, su dati recenti secondo cui nelle persone che sono dipendenti dal gioco d’azzardo il cervello cambia in modo simile a quello dei tossicodipendenti, e che sia tossicodipendenti sia giocatori d’azzardo patologici traggono beneficio dalla terapia di gruppo e da una graduale disassuefazione. Un’altra dipendenza comportamentale, il disturbo da gioco su Internet, verrà incluso nella sezione 3, che è riservata alle condizioni che richiedono ulteriori ricerche prima di essere formalmente considerate disturbi. L’ipotizzata “ipersessualità”, che molti hanno considerato come come un altro nome per la dipendenza dal sesso, è stata invece respinta dai curatori del nuovo manuale.

Capricci o malattia?
Le fluttuazioni anormalmente intense e frequenti dell’umore – che oscilla da uno stato di esaltazione e agitazione a una profonda depressione – sono caratteristiche del disturbo bipolare (precedentemente conosciuto come malattia maniaco-depressiva). Per la maggior parte dell’esistenza del DSM, il disturbo bipolare è stato considerato in primo luogo una malattia dell’età adulta, anche se a volte fa il suo esordio nell’adolescenza. Negli ultimi due decenni, tuttavia, sempre più bambini sono stati diagnosticati come bipolari. E dal 2000 negli Stati Uniti queste diagnosi pediatriche sono aumentate di almeno quattro volte.

 
© Rick Gomez/CORBISQuesta nuova tendenza ha profondamente irritato un ampio segmento della comunità psichiatrica. La maggior parte dei cosiddetti bambini bipolari – alcuni dei quali hanno assunto farmaci per stabilizzare l’umore e antipsicotici, con gravi effetti collaterali – secondo molti psichiatri non aveva alcuna forma di disturbo bipolare. Probabilmente soffrivano di una malattia completamente diversa. Invece di oscillare tra mania e depressione, erano irritabili per gran parte del tempo, scoppiando spesso in crisi di rabbia e di violenza fisica non commisurata all’offesa che li aveva fatti esplodere. Così l’APA ha deciso di creare una nuova fattispecie diagnostica per accogliere questi bambini: disturbo da disregolazione distruttiva dell’umore. Per soddisfarne i criteri, un bambino tra i sei e i 18 anni deve “presentare irritabilità persistente e frequenti episodi di comportamento esplosivo per tre o più volte alla settimana per più di un anno”.

I critici – come Stuart Kaplan del Penn State College of Medicine, l’assistente sociale e farmacologo Joe Wegmann, e Allen Frances, professore emerito alla Duke University e già a capo della DSM-IV Task Force – temono però che gli psichiatri confondano la collera con un disturbo mentale e continuino in quella che considerano una tendenza alla sovra-diagnosi e all’eccessiva medicalizzazione. David Axelson dell’Università di Pittsburgh ha messo alla prova i criteri per la disregolazione distruttiva dell’umore del DSM-V applicandoli ai dati raccolti in vari anni relativi a 706 bambini, e ha concluso che l’introduzione del nuovo disturbo non è molto utile. In primo luogo, si sovrappone in modo confuso – rendendo spesso difficile la distinzione – a due diagnosi già accettate: il disturbo oppositivo provocatorio e il disturbo della condotta. Inoltre, la diagnosi di disregolazione distruttiva dell’umore durante l’infanzia non si è dimostrata un buon predittore di futuri problemi di salute mentale, in particolare di depressione e ansia. Molti osservatori avevano sperato che questa ricerca, pubblicata alla fine del 2012, avrebbe fatto cambiare idea all’APA, ma la commissione ha deciso di mantenere il nuovo disturbo nel DSM-V.

Disturbi della personalità: un capitolo ancora disturbato
Per decenni gli psichiatri hanno chiesto una revisione completa del modo in cui i medici descrivono e diagnosticano i disturbi della personalitài. Per prima cosa, molti criteri relativi ai 10 disturbi di personalità elencati nel DSM si sovrappongono, portando a un tale numero di pazienti con più diagnosi da mettere in discussione la validità di alcune patologie: forse alcune di queste malattie semplicemente non esistono al di fuori delle pagine del DSM? I disturbi di personalità istrionica e narcisistica, per esempio, sono entrambi caratterizzati dal bisogno di essere al centro dell’attenzione, dall’inclinazione a sfruttare famiglia e amici, e dalla difficoltà a interpretare le emozioni degli altri. Inoltre, gli psichiatri hanno cominciato a fare troppo affidamento sul “disturbo di personalità non altrimenti specificato”, il che indica anzitutto che alcuni pazienti hanno problemi di personalità che non sono stati adeguatamente definiti dal DSM.

© Images.com/CorbisGli psicologi clinici si sono resi conto sempre più che non si può dire in maniera categorica che le persone hanno o non hanno certi tratti di personalità problematici: piuttosto si tratta di caratteristiche che variano in intensità da persona a persona. Pertanto, invece di formulare una diagnosi cercando la presenza o l’assenza di tratti di personalità disfunzionali, i medici dovrebbero misurare la gravità di questi tratti per determinare, nel contesto della salute mentale globale del paziente, se e come la persona debba essere curata.

Anche se i membri del gruppo di lavoro che aveva il compito di ridefinire i disturbi di personalità del DSM-V non concordano su tutto – e due membri si sono dimessi per la frustrazione – il team aveva elaborato una proposta relativamente ben accolta, eliminando quattro disturbi ridondanti e, nel complesso, adottando una visione molto più sfumata della personalità rispetto alle versioni precedenti del DSM, incoraggiando interviste approfondite per valutare quanto un individuo mantenga un senso di sé coerente e quanto interagisca con gli altri, invece di cercare di incasellare la persona in una delle dieci categorie basate su alcuni sintomi apparentemente rivelatori.

Alcuni psichiatri, tuttavia, hanno criticato aspramente le revisioni proposte come troppo complesse e onerose, sostenendo che nessun medico avrebbe mai utilizzato il nuovo sistema. Il gruppo di lavoro ha quindi continuato a riesaminare la proposta, semplificando il più possibile e riuscendo a ottenere l’approvazione da parte della DSM-V Task Force. Ma alla fine, il consiglio direttivo dell’APA ha votato contro le modifiche proposte. Come risultato, il capitolo sui disturbi della personalità del DSM-V non si discosta molto da quello della versione precedente.

Il dolore può sfociare in depressione
I sintomi della depressione – umore abbattuto, scarsa energia, insonnia, senso di inutilità, perdita di piacere e variazioni di peso – devono persistere per almeno due settimane per soddisfare i criteri del DSM-IV per un episodio depressivo maggiore. Tuttavia, finora il manuale prevedeva che chi aveva perso da poco  una persona cara non dovesse ricevere una diagnosi di depressione, a meno che i sintomi durassero più di due mesi. L’idea era che ciò che può appare come depressione maggiore probabilmente è cordoglio, più comunemente noto come lutto, una tipica risposta transitoria alla perdita che non richiede farmaci. Il DSM-V ha eliminato questa “esclusione per lutto” e sostituendola con alcune note che descrivono le differenze tra lutto e depressione. Ora può essere diagnosticata una depressione da lutto anche nei primi due mesi dopo la morte di una persona cara, con la possibilità di richiedere alle assicurazioni di coprire i costi delle terapie.

6© Whisson/Jordan/CorbisMolti hanno però criticato questa decisione, temendo che incoraggi una eccessiva medicalizzazione. Secondo l’APA, tuttavia, il cambiamento riflette la nuova concezione che il lutto è un evento gravemente stressante che può precipitare un episodio depressivo maggiore in tempi relativamente brevi. Alcuni studi hanno dimostrato, per esempio, che i sintomi di depressione in concomitanza di un lutto sono simili per gravità, durata, risposta agli antidepressivi ed esiti a lungo termine a quelli di una depressione non legata a un lutto. Di conseguenza, le persone in lutto e clinicamente depresse nei due mesi successivi a una perdita devono avere accesso alle cure. Allo stesso modo, alcuni hanno contestato il fatto che, quando si tratta di individuare la depressione, il DSM faccia un’eccezione per il dolore in seguito alla morte di una persona cara, ma non per altri tipi di perdita o di stress psicosociale come divorzio, disoccupazione, fallimento finanziario o rifiuto romantico. La Classificazione internazionale delle malattie (ICD), adottata dall’Organizzazione mondiale della sanità, non contempla una simile eccezione.

In un articolo pubblicato su “Depression and Anxiety” nel maggio 2012, Sidney Zisook dell’Università della California a San Diego, e i suoi coautori hanno preso in esame svariati articoli di rassegna e diversi studi e hanno concluso che i dati disponibili suffragano la rimozione dal DSM-V dell’eccezione da lutto. “Riconoscere che un lutto possa essere un fattore di grave stress che può innescare un episodio depressivo maggiore in una persona vulnerabile NON medicalizza o patologizza il dolore!” hanno scritto (il maiuscolo è loro). “Piuttosto, evita che venga trascurato o ignorato un episodio depressivo maggiore, e facilita la possibilità di un trattamento adeguato. Inoltre, rimuovere l’eccezione del lutto non significa che il lutto dovrebbe esaurirsi nell’arco di due mesi. Infatti, per molte persone il dolore, nelle sue diverse manifestazioni, dura mesi, anni o tutta la vita, anche se non è accompagnato da un episodio depressivo maggiore. ”

Lo spettro autistico
Spesso definito come un disturbo dello sviluppo neurologico, l’autismo è caratterizzato dalla compromissione dell’interazione sociale e della comunicazione – per esempio con un ritardo nello sviluppo del linguaggio, l’evitamento di un contatto visivo prolungato e, talvolta, la difficoltà a fare amicizia – oltre che da un comportamento limitato e ripetitivo, per esempio la ripetizione di espressioni vocali o di gesti. Nel DSM-IV, disturbo autistico, Asperger, disturbo disintegrativo dell’infanzia, insieme al disturbo generalizzato (pervasivo) dello sviluppo non altrimenti specificato (PDD-NOS), sono oggetto di diagnosi distinte, pur essendo elencati nello stesso capitolo. Il DSM-V riunisce tutte queste forme sotto un unico nuovo nome, quello di disturbo dello spettro autistico (ASD). L’APA sostiene che i sintomi di questi disturbi sono così simili da appartenere a uno stesso continuum, invece di costituire entità separate. Alcuni membri della comunità degli Asperger, preoccupati di perdere una parte importante della loro identità, sostengono che l’Asperger è abbastanza diverso dal disturbo autistico da meritare una propria categoria, mentre altre persone con Asperger approvano la modifica e alcuni genitori fanno notare che può essere di aiuto ai bambini esclusi dai programmi di sostegno e dall’assistenza delle assicurazioni perché l’Asperger è stato considerato una forma troppo mite per giustificare quel sostegno.

7© ABK/BSIP/CorbisL’APA ha anche reso più difficile la diagnosi di autismo in alcuni casi. Il DSM-IV prevedeva 2027 modi diversidi arrivare a una diagnosi di autismo, ora il DSM-V ne prevede solo 11. Potrebbe sembrare una riduzione troppo drastica ma, nel complesso, molti psichiatri concordano sul fatto che è un cambiamento utile, sostenendo che i criteri del passato erano troppo ampi. Diverse persone hanno ricevuto la diagnosi pur non essendo autistiche, e queste diagnosi errate hanno sicuramente contribuito a portare alle stelle i tassi di diagnosi di autismo in tutto il mondo dal 1980. Il Centers for Disease Control and Prevention degli Stati Uniti stima che venga diagnosticato un disturbo dello spettro autistico a un bambino su 88.

All’inizio del 2012, però, diversi studi hanno testato i nuovi criteri per l’autismo, concludendo che erano troppo severi ed escludevano alcune persone ad alto funzionamento all’estremo più lieve dello spettro. Nel mese di ottobre del 2012, un’analisi più ampia e completa dei dati relativi a oltre 5000 bambini ha stabilito che i criteri del DSM-V individuano il 91 per cento dei bambini che hanno ricevuto una diagnosi di autismo o di un disturbo correlato allo sviluppo sulla base del DSM-IV. Alcune modifiche suggerite da piccoli studi pubblicati agli inizi del 2012 avrebbero potuto rendere i criteri del DSM-5 più inclusivi, contribuendo a identificare quel 9 per cento di bambini trascurati. Eppure, quando è arrivato il momento di mettere a punto il DSM-V, alla fine del 2012, l’APA ha deciso di mantenere i criteri più severi.

Una sindrome ancora da verificare
Originariamente l’APA aveva proposto di aggiungere un nuovo disturbo al DSM-5, la cosiddetta sindrome psicotica attenuata, che aveva lo scopo di identificare i bambini che mostrano quei segnali di allarme che precedono una psicosi conclamata: segni come voci o immagini allucinatorie. I critici hanno sottolineato una ricerca secondo cui i due terzi dei bambini che soddisfano i criteri proposti non svilupperanno mai una psicosi grave. Un’altra ricerca indica che l’11 per cento della popolazione a volte sente voci o ha momenti di intenso pensiero magico, senza che ciò provochi angoscia o interferisca con il lavoro e la vita sociale. Allen Frances, già presidente del gruppo di lavoro del DSM-IV e il più veemente critico del nuovo manuale, ha definito la sindrome psicotica attenuata la “peggior singola proposta del DSM-V”. Come nel caso del disturbo da disregolazione distruttiva dell’umore, il timore era che fossero somministrati potenti antipsicotici con effetti collaterali potenzialmente nocivi a bambini che non ne avevano bisogno. L’APA ha riconosciuto la critica e, dopo una serie di test sui criteri proposti, ha spostato la sindrome psicotica attenuata dalla sezione principale del DSM-V alla sezione 3, riservata alle condizioni che richiedono ulteriori ricerche prima di essere considerate formalmente dei disturbi.

Tuttavia, alcuni ricercatori sostengono ancora che la sindrome da psicosi attenuata sia utile e che le ulteriori ricerche lo dimostreranno. “Penso che sia il futuro delle terapie e la nostra migliore speranza di cambiare davvero il corso della vita delle persone vulnerabili allo sviluppo di una psicosi cronica”, dice William Carpenter, direttore del Maryland Psychiatric Research Center. “Avrei preferito per inserirlo nel testo principale ora, ma comprendo la limitazione in assenza di una buona prova di affidabilità.”  Patrick McGorry, direttore dell’Orygen Youth Health Research Center, in Australia, la pensa allo stesso modo. “A conti fatti, sono d’accordo e accetto di buon grado la decisione”, ma osserva che, secondo i dati che ha già presentato in occasione di conferenze e che pubblicherà a breve, benché solo un terzo circa dei bambini identificati come ad alto rischio di sviluppare una psicosi sia poi divenuta effettivamente psicotica, l’oltre 70 per cento dei bambini rimanenti sviluppa disturbi dell’umore, ansia o disturbo da uso di sostanze. Sia Carpenter che McGorry osservano che gli antipsicotici e gli altri farmaci non sono l’unica opzione di trattamento; le alternative includono la terapia cognitivo-comportamentale per riconoscere e ridurre gli schemi di pensiero disadattivi, la terapia della parola, interventi per ridurre l’abuso di sostanze e il ssemplice aumento dell’attenzione a eventuali indicatori di peggioramento di psicosi.

La versione originale di questo articolo è apparsa su Scientificamerican. com il 28 gennaio 2013. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati

 

 

 

 

MANUALE DI PSICHIATRIA A FUMETTI

 

Da: associazione scalea93 [mailto:scalea93@gmail.com]
Inviato: sabato 2 febbraio 2013 17:49
A:
Oggetto: MANUALE DI PSICHIATRIA A FUMETTI

 

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Buon fine settimana
Giovanna Penati

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